lunedì 7 febbraio 2011

Petrolio d'Egitto!

Della rivolta in Egitto i telegiornali stanno parlando in lungo e in largo. Tuttavia ci sarebbero molte cose da dire in proposito. Si potrebbe ad esempio fare qualche considerazione sulla realpolitik, che obbliga i leader di mezzo Mondo (compreso il nostro premier - ma si ricordi che l'Italia è uno dei principali partner commerciali dell'Egitto) a vezzeggiare quello che, se non avesse fatto gli interessi dell'occidente per decenni, verrebbe definito un dittatore e un tiranno. O della censura totale di Internet attuata dal governo del Cairo, soluzione repressiva a cui nessuno era mai giunto prima. Argomenti interessanti, ma di cui non voglio occuparmi oggi. Quello che più mi interessa, alla luce di questa rivolta e delle altre che stanno investendo il Maghreb, è analizzare i motivi della crisi.
Non pretendo di possedere la verità e nemmeno una parte di essa. Dietro agli scontri in Egitto ci sono complesse ragioni socio-economiche e geo-politiche che non sono in grado di analizzare a fondo, ma spiegare la rivolta nel modo semplicistico in cui viene presentata dai media è sbagliato e fuorviante. Le rivoluzioni non si manifestano finché le cose non vanno così male da giustificarle.
La domanda dunque è: perchè le cose in Egitto stavano andando così male?

Date un'occhiata a questo grafico, ottenuto usando l'Energy Export Databrowser e basato sui dati della BP Statistical Review:


La figura è abbastanza chiara, ma ci sprecherò due parole. Ormai da un paio di decenni la produzione petrolifera egiziana è in declino. Al contrario, il consumo di greggio continua a salire. Da paese esportatore di petrolio l'Egitto si sta trasformando in un paese importatore, perdendo un'importante fonte di reddito e di stimolo per l'industria: questo va ad aggravare una situazione finanziaria a dir poco disastrosa.

Stando al CIA World FactBook, le riforme economiche varate dal governo nel periodo 2004-2008 per attrarre investimenti stranieri hanno avuto scarso successo a causa della recessione economica globale. Con un debito pubblico pari all'80,5% del PIL, più del 20% della popolazione sotto la soglia di povertà, un'inflazione galoppante (12,8% nel 2010) e un tasso di disoccupazione pari al 9,7%, la situazione egiziana alla vigilia della crisi era tutt'altro che stabile.

Per calmierare i prezzi dei generi alimentari da decenni il governo egiziano fa ricorso a sussidi.  Nel 1977 l'annuncio di provvedimenti economici che avrebbero portato al rialzo dei prezzi dei generi di prima necessità scatenò una rivolta (la cosiddetta rivolta del pane) in cui persero la vita decine di persone. Il governo dell'epoca fu costretto a tornare sui suoi passi. Ma da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Nel 2008 al grido Aish! Aish! (pane! pane!) milioni di egiziani assaltarono i forni di tutto il paese. Morirono 15 persone e la crisi rientrò, almeno per un po'.

Considerato un tempo il granaio dell'impero romano, l'Egitto è oggi uno dei maggior importatori di grano del Mondo (nel 2010 il ministro dell'agricoltura Amin Abaza ha dichiarato che il paese importa il 40% del cibo e il 60% del grano). Anche la pressione demografica ha continuato a crescere in modo inarrestabile, togliendo tra l'altro terreni prima disponibili per l'agricoltura, già minacciata da un forte stress idrico (l'Egitto è in competizione con Sudan ed Etiopia per lo sfruttamento del bacino del Nilo, una situazione che rende instabile l'intera regione).

Venendo a mancare fonti di reddito importanti come l'esportazione di petrolio (compensate solo in parte negli ultimi anni da un aumento delle esportazioni di gas naturale e da altri proventi come quelli derivanti dal transito delle navi nel canale di Suez, una cui ipotetica chiusura assesterebbe un ulteriore grave colpo all'economia egiziana) e dovendo fra fronte ad un aumento del prezzo del grano (nel 2010 la produzione ha subito una contrazione, in parte dovuta all'ondata di caldo e siccità che ha investito la Russia) mantenere immutata la politica dei sussidi, che è ormai uno dei pilastri dell'economia egiziana, diventa sempre più difficile ed insostenibile.

Aggiungiamo un sistema corrotto, autoritario e oppressivo, un gap tra ricchi e poveri sempre più ampio e un benessere che non si vede se non sulla carta e negli alberghi a 5 stelle in riva al Nilo (nel 2010 il PIL egiziano è cresciuto del 5,3%, uno dei tassi più alti della regione, ma insufficiente per compensare la crescita demografica) ed ecco spiegate le ragioni della crisi! L'Egitto è una nazione allo sfascio.

Purtroppo, ed è qui che voglio andare a parare, la situazione egiziana è tutt'altro che isolata.

La produzione di petrolio ha già raggiunto il picco in diverse nazioni e, a livello globale, sta stagnando dal 2005. Nonostante le previsioni ottimistiche (o miopi) di chi sostiene che, grazie a tecnologie all'avanguardia, sarà possibile proseguire l'estrazione di greggio a prezzi economicamente vantaggiosi fino alla fine del secolo, ritengo più probabile che l'aumento della domanda di petrolio e altri combustibili fossili, soprattutto a causa dell'ingresso nel mercato di economie emergenti e avide di risorse, sarà impossibile da soddisfare in seguito all'esaurimento delle riserve primarie e più facilmente accessibili. Lo scatenarsi di conflitti in aree come l'Afghanistan e l'Iraq è, a mio parere, sintomo di una corsa ad accaparrarsi le risorse strategiche finché è possibile.

Un aumento della domanda e un ristagno (o una diminuzione) della produzione hanno come conseguenza un aumento dei prezzi. Non solo del petrolio, com'è logico aspettarsi, ma anche del cibo.

Guardate questo grafico, che mette a confronto il FAO Food Price Index con l'indice Brent del petrolio:


Notate qualche somiglianza? Vorrei ricordarvi che il petrolio è usato direttamente nella produzione agricola (i trattori vanno a gasolio) e indirettamente nell'immagazzinamento e nel trasporto. Da cui la forte somiglianza tra i due grafici.

Se a questo sommiamo l'aumento demografico, la diffusione dello stile di vita occidentale con il conseguente maggiore consumo di carne (per la cui produzione sono necessarie notevoli quantità di grano ed acqua) e uno scellerato uso delle risorse agricole per la produzione di biocarburanti otteniamo una domanda di grano ed altre risorse alimentari primarie in continua crescita.

D'altra parte non è previsto per i prossimi anni un aumento decisivo della produzione agricola paragonabile a quello avviato dalla Rivoluzione Verde negli anni '70, motivo per cui i prezzi dei generi alimentari sono destinati a salire sempre più.

Questo aumento dei prezzi, unito ad una diminuzione dei redditi e del potere d'acquisto a causa della recessione economica, è insostenibile per una larga parte della popolazione mondiale, che vive sotto la soglia di povertà. La crisi colpisce per prime le economie più deboli e le nazioni socialmente arretrate, ma anche le classi disagiate delle nazioni più ricche. Per di più l'inflazione innesca un meccanismo di feedback che alimenta la crisi economica. Dovendo impegnare più risorse finanziarie nell'acquisto di generi di prima necessità, le classi più deboli rinunciano all'acquisto di beni secondari. Vi è così una contrazione dei consumi, che in un sistema economico che basa il benessere sul PIL è un autentico disastro.
Temo che le rivolte del pane diverranno una norma negli anni a venire.

In un Mondo strettamente interconnesso come quello in cui viviamo, che continua a basare il proprio funzionamento sull'uso di combustibili fossili, in cui i concorrenti ad accaparrarsi le risorse diventano sempre più numerosi ed agguerriti ed in cui la cultura economica dominante basa le proprie decisioni su previsioni a breve termine il futuro si prospetta grigio.
Il Rapporto sui limiti dello sviluppo commissionato al MIT dal Club di Roma e pubblicato nel 1972 fu deriso e gli scienziati che ammonirono i decisori politici sui rischi derivanti dalla crescita illimitata fecero la fine di Cassandra. Forse qualcuno avrebbe dovuto dar loro ascolto. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.

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