lunedì 19 aprile 2010

I problemi di un mondo (fisicamente) interconnesso

Il blocco del traffico aereo conseguente all'eruzione dell'Eyjafjallajökul rappresenta un disagio più o meno grave per le persone rimaste a terra, una fonte di preoccupazione per chi basa su questo mezzo di trasporto i propri affari ed il proprio lavoro e un durissimo colpo per il commercio internazionale.

Per me, che me ne sto comodamente seduto in poltrona davanti al pc, è invece un ottimo spunto di riflessione.

C'è qualcosa che non va nella nostra società, una debolezza intrinseca che di anno in anno si manifesta in forme diverse, ma accomunate dalla stessa radice: crisi, che fino a qualche decennio fa sarebbero rimaste confinate a livello locale, si trasformano in problemi internazionali.
L'aumento dell'interconnessione fisica tra le nazioni, la diminuzione delle distanze tra i luoghi, la trasformazione delle risorse (finanziarie, naturali, commerciali) da locali a "globali" offre ad un numero sempre maggiore di persone possibilità che prima erano riservate ad un'élite, ma al tempo stesso l'effetto di ogni perturbazione locale si trasmette in ogni angolo del globo.

Possiamo così mangiare fragole d'inverno, gustare sushi e frutti tropicali da Mosca a Rio De Janeiro, prendere voli low-cost per trascorrere un romantico weekend a Parigi, acquistare a prezzi stracciati t-shirt tessute in India, tinte in Cina e vendute su Ebay da un rivenditore nordamericano, fare il pendolare da Roma a Vancouver.

Ma dobbiamo anche temere per la nostra incolumità quando terroristi mediorientali riescono a prendere il controllo di aerei a New York, treni a Madrid, convogli della metropolitana a Londra, perdere il lavoro in Spagna in seguito all'esplosione di una bolla speculativa immobiliare negli Stati Uniti, ammalarci di febbre suina in Australia dopo due settimane che un virus influenzale proveniente dal Messico è stato ormai trasportato da viaggiatori infetti in ogni nazione occidentale, osservare preoccupati rivolte alimentari nelle nazioni in via di sviluppo dopo che gli Stati Uniti hanno fornito sussidi per la produzione di bio-etanolo, assistere impotenti al tracollo del commercio e ad ingenti perdite finanziarie quando un'eruzione vulcanica in Islanda costringe a terra gli aerei.

Il mondo sta diventando sempre più piccolo. I problemi che lo affliggono sempre più grandi.

Ma questi sono solo i sintomi di una malattia che deve ancora manifestarsi nel pieno del suo vigore. In passato civiltà sono sorte e sono cadute. Nazioni un giorno fiorenti sono precipitate nella polvere. Popoli sono spariti lasciandosi alle spalle solo romantiche rovine nella giungla. Ma nessuno degli esempi del passato sembra esserci servito da monito. E ora stiamo costruendo una grande civiltà globale, basata sulle stesse (fragili) fondamenta del mondo che ci ha preceduto: il libero mercato, il mito della crescita illimitata in un pianeta limitato, la mancanza di equilibrio.
La società globalizzata è un immenso castello costruito sulla sabbia, abitato da 7 miliardi di persone e al cui crollo (se e quando avverrà) nessuno potrà sottrarsi.

In un Mondo strettamente intrecciato cosa accadrà quando le risorse idriche e alimentari non potranno più soddisfare le richieste di paesi emergenti come Cina e India? Quando nazioni sull'orlo del fallimento precipiteranno nel caos? O quando a causa del raggiungimento del picco del petrolio il costo delle materie prime schizzerà alle stelle?

Le risposte le lascio trovare a voi.

Essere consapevoli della fragilità della nostra società è utile?
Io ho una certezza, l'ho maturata nel corso degli anni e per ora niente è riuscito a farmi cambiare idea. Il mondo occidentale così come lo conosciamo oggi non sopravviverà ancora a lungo: o cambierà o si autodistruggerà. La violenza della trasformazione dipenderà dalle nostre scelte, dalla reversibilità o meno di alcuni dei fenomeni classificati sotto il nome "globalizzazione".
Tuttavia non sono fiducioso. Nel 1972 scienziati e industriali di tutto il Mondo si riunirono al Club di Roma e stilarono un rapporto per definire i limiti dello sviluppo della civiltà umana, che seguendo i trend analizzati all'epoca non sarebbe potuto durare per più di un secolo. Questo incontro fu una prima grande opportunità di cambiamento, ma venne sprecata. Sono passati quasi 40 anni: niente è cambiato. Anzi, col passare degli anni l'idea di frenare lo sviluppo è diventata sempre più assurda. E l'orologio continua a ticchettare... TIC TAC TIC TAC

Link:
-Jared Diamond, Collasso, Einaudi, 2007
-Bill McKibben, Sconfiggere il mito della crescita, Le Scienze n. 500, aprile 2010

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