giovedì 3 ottobre 2013

Le vene aperte del continente africano

A che serve indire un giorno di lutto nazionale? A che serve quando si è complici del meccanismo perverso che costringe gente disperata ad affrontare viaggi disumani? A che serve quando si assiste al dramma di un intero continente senza fare niente per rimediare? È un modo per sentirsi con la coscienza a posto?
La spoliazione e sottomissione dell'Africa non è terminata con la fine del colonialismo. Agli stati nazionali si sono sostituite le grandi multinazionali, ai governatori gli amministratori delegati. Niente è cambiato. Continuiamo a strappare al continente nero le sue risorse e la sua gente senza offrire niente in cambio. Instabilità politica, guerre, genocidi, fame e disperazione sono il sottoprodotto degli interessi economici dell'Occidente neoliberista. E i morti di Lampedusa non sono altro che un danno collaterale accettabile. Una piccola goccia nel mare di sangue formato dalle vene aperte del continente africano.

mercoledì 11 settembre 2013

11-09-1973

C'è un altro 11 settembre oltre a quello del 2001.
Un 11 settembre altrettanto tragico e che, come il giorno in cui le Torri Gemelle di New York furono rase al suolo, andrebbe ricordato.
Quarant'anni fa, l'11 settembre 1973, il governo democraticamente eletto di Salvador Allende fu rovesciato da un colpo di stato militare. Mentre il corpo senza vita del presidente veniva condotto fuori dal palazzo di governo, il generale Augusto Pinochet prendeva il potere. Anni terribili attendevano il popolo cileno, anni sanguinosi in cui assassinio e tortura divennero pratiche comuni, in cui lo stato sociale fu spazzato via e in cui il paese precipitò in una profonda recessione.
Altri colpi di stato avrebbero squassato il continente sudamericano negli anni successivi. Essi furono gli ultimi episodi di una guerra di saccheggio iniziata il giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede per la prima volta nelle Indie Occidentali. Studiandoli bene si trovano in essi alcuni denominatori comuni: la complicità dei servizi d'intelligence nordamericani e l'adozione delle tecniche di tortura e repressione perfezionate dalla CIA, l'approvazione nemmeno troppo tacita del Governo degli Stati Uniti e dei suoi alleati, la sistematica applicazione, nei paesi conquistati, delle dottrine economiche neoliberiste, magari dietro alla facciata della carità internazionale. Il tutto con un unico scopo: mantenere i paesi latinoamericani in uno stato di sudditanza e alla mercè delle grandi imprese del mondo capitalistico, imprese capaci di creare e distruggere re e presidenti, di finanziare rivolte di palazzo, di disporre di innumerevoli generali, ministri e James Bond e di decidere della guerra e della pace in tutte le regioni e in tutte le lingue del mondo*.
E' da decenni che gli Stati Uniti hanno vomitato la Dichiarazione d'Indipendenza e che si sono piegati senza vergogna ai dettami del capitalismo. Dunque, se devo commemorare l'11 settembre, non voglio farlo ricordando la caduta dei simboli del potere economico occidentale, ma la tragedia dei milioni che hanno sofferto e sono morti per causa di quello stesso potere, annoverando tra di essi le vittime degli attacchi suicidi di dodici anni fa.

*Eduardo Galeano, Le Vene Aperte dell'America Latina

lunedì 6 giugno 2011

Diecimila miliardi di dollari

Dall'inizio della guerra fredda, nel 1946, alla sua fine, nel 1989, gli Stati Uniti hanno speso (secondo il cambio del 1989) la bellezza di oltre diecimila miliardi di dollari per fronteggiare l'Unione Sovietica a livello mondiale. Di questa cifra, più di un terzo è stato speso dall'amministrazione Reagan che portò il deficit nazionale a livelli mai raggiunti da tutte le precedenti amministrazioni messe insieme, a partire da quella di George Washington. All'inizio della guerra fredda, la nazione era, da tutti i punti di vista, inattaccabile da qualunque forza militare straniera. Oggi, dopo aver speso una parte così ingente delle proprie risorse nazionali (e nonostante la guerra fredda sia finita), gli Stati Uniti possono essere praticamente rasi al suolo in pochi minuti.
Un'azienda che avesse sperperato il proprio patrimonio in maniera così dissennata, e con risultati quasi inesistenti, sarebbe fallita già da tempo. I dirigenti incapaci di ammettere un fallimento tanto evidente della politica aziendale sarebbero stati già da tempo scacciati dagli azionisti.
Come si sarebbe potuto impiegare diversamente quel denaro (non tutto, in quanto la difesa è, ovviamente, necessaria entro certi limiti, ma diciamo almeno la metà)? Con poco più di cinquemila miliardi, distribuiti con oculatezza, avremmo potuto compiere numerosi passi avanti nella soluzione di problemi quali la fame nel mondo, i senzatetto, le malattie infettive, l'analfabetismo, l'ignoranza, la povertà e la tutela dell'ambiente - non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. Avremmo potuto lavorare per la creazione di agricolture autosufficienti in tutto il pianeta e per eliminare molte delle cause che presiedono alla guerra e alla violenza. E tutto ciò con enormi vantaggi anche per l'economia americana. Avremmo potuto agire sul deficit nazionale. Con meno di un punto percentuale di quel denaro, avremmo potuto progettare un programma di esplorazione a lungo termine con l'invio di uomini su Marte. Con una minima frazione di quel denaro avremmo potuto supportare per decenni le più fantastiche e creative opere d'arte, l'architettura, la medicina e la scienza. Le opportunità a livello tecnologico e imprenditoriale sarebbero state straordinarie.

[tratto da Carl Sagan, Miliardi e Miliardi, 1997, Cap.17 Gettysburg e oggi]

sabato 12 marzo 2011

La battaglia di Chernobyl

Nota iniziale
Ho scritto questo post poco prima dei drammatici avvenimenti che stanno sconvolgendo il Giappone. Proprio in queste ore un'esplosione ha danneggiato l'edificio del reattore numero 1 della centrale nucleare di Fukushima Daiichi. 25 anni dopo Chernobyl e 32 anni dopo Three Mile Island, l'incubo di una catastrofe nucleare sembra ripetersi.

Il documentario
La battaglia di Chernobyl (titolo originale: The battle of Chernobyl) è un documentario del 2006 co-prodotto da France 3 e Discovery International Networks e diretto da Thomas Jonhson.

Il documentario vinse, come miglior produzione culturale, la 58esima edizione del Prix Italia, uno dei più antichi e prestigiosi concorsi internazionali per programmi radio, tv e web, organizzato dalla RAI. In Italia fu trasmesso due sole volte: il 26 aprile 2006 alle 21.00 su Discovery Channel e il 6 marzo 2007 alle 2.00 su RAIDUE: incredibile svista o deliberata censura?

La battaglia di Chernobyl presenta materiale audio/video inedito e ricostruisce, settimana dopo settimana, i drammatici avvenimenti successivi al disastro nucleare del 1986, scontrandosi con l'alone di omertà che avvolge da decenni l'incidente e le sue conseguenze. Sebbene alcune delle questioni affrontate siano controverse (non può essere altrimenti), la maggior parte dei fatti narrati è supportata da un'ampia documentazione e da testimonianze straordinarie. Per chi del disastro di Chernobyl ha solo sentito parlare, questo documentario è un ottimo punto di partenza per approfondire la questione.

Purtroppo non esiste alcun DVD per la vendita, ma, accontentandosi di una qualità non proprio ineccepibile, il video è facilmente reperibile, in italiano ed in inglese, sulle reti ed2k e torrent e, solo in lingua originale, su YouTube.

La battaglia
All'1.23.45 (ora locale) del 26 aprile 1986 una devastante esplosione squassò il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, allora repubblica dell'Unione Sovietica. Il coperchio del reattore fu scaraventato via, esponendo all'aria il nucleo in fusione. Seguì un potente incendio delle barre di grafite, che liberò in atmosfera tonnellate di polveri radioattive. Trasportate dal vento, nel giro di qualche giorno le polveri si diffusero su mezza Europa.

Ignari del pericolo che correvano, sul posto intervennero subito i vigili del fuoco, ma i tentativi di spegnere l'incendio furono vani. Intanto a Pripyat, nei villaggi e nelle città vicine al luogo del disastro la vita continuava a scorrere come se niente fosse successo. L'intervento dei sovietici fu lento e tardivo: l'evacuazione di Pripyat iniziò solo 36 ore dopo l'incidente, quando ormai la popolazione era stata esposta a dosi elevate di radiazione: la città e le campagne vicine erano già completamente contaminate.

La gestione del disastro passò nelle mani dell'esercito: nel giro di poche ore l'area circostante alla centrale si trasformò in una zona di guerra. Per estinguere l'incendio e fermare la diffusione delle polveri radioattive, che continuavano a liberarsi in atmosfera, elicotteri carichi di boro, silicati, sabbia e dolomia riversarono per giorni il loro fardello sul nucleo incandescente del reattore: l'intensità dell'incendio diminuì, ma la fusione non si arrestò. L'emissione di vapore radioattivo cessò il 10 maggio.

Intanto la cortina di silenzio che Mosca aveva steso sul disastro cominciava a squarciarsi. Il 27 aprile, allarmati dai livelli di radiazione rilevati nei pressi della centrale nucleare di Forsmark, in Svezia, gli scienziati intuirono che da qualche parte doveva essersi verificato un grave incidente. L'attenzione si fissò sull'Unione Sovietica e le immagini del satellite Landsat 5 confermarono i sospetti: messi alle strette, i vertici del Politburo furono costretti ad ammettere l'incidente, pur minimizzandone le conseguenze ed affermando ripetutamente che la situazione era sotto controllo. Per non scatenare il panico, nonostante la radioattività fosse centinaia di volte superiore alla norma, i membri locali del Partito decisero di non rinviare la parata del primo maggio a Kiev, invitando addirittura le famiglie a parteciparvi. Igor Kostin, reporter dell'agenzia Novosti - uno dei principali testimoni degli eventi di Chernobyl, la definì una parata di morte.

All'inizio di maggio la situazione alla centrale rimaneva critica. Il magma incandescente di uranio e grafite, appesantito ulteriormente dal materiale scaricato dagli elicotteri, stava lentamente sprofondando attraverso il pavimento di cemento. A contatto con l'acqua accumulata in seguito alla rottura delle condotte e all'intervento dei vigili del fuoco, esso avrebbe potuto generare una nuova catastrofica esplosione [1]. L'acqua fu drenata e gli elicotteri scaricarono sul reattore tonnellate di piombo, in modo tale da abbassare la temperatura del magma e schermare le radiazioni, ma il rischio che il nucleo sprofondasse fino a raggiungere la falda acquifera rimaneva elevato. Si decise di costruire una stanza sotterranea, appena sotto al pavimento del reattore, e di installarci un dispositivo di refrigerazione. Per farlo furono chiamati migliaia di minatori, principalmente dalla città mineraria di Tula, ed essi scavarono per giorni sotto alla centrale: tredici metri al giorno, nonostante il caldo soffocante e le radiazioni, finché il lavoro fu completato. "Qualcuno doveva andare a farlo" afferma uno dei superstiti. Alla fine, al posto del sistema di refrigerazione, il pavimento fu rinforzato con il cemento. L'emergenza era finita, i minatori furono rimandati a casa e molti di essi morirono o si ammalarono gravemente, sebbene il loro numero non compaia in nessuna statistica ufficiale [2]. Un monumento a Tula ricorda il loro sacrificio.

Il rischio di una nuova esplosione era stato evitato, ma rimaneva ancora molto da fare. La zona intorno all'impianto, altamente contaminata, andava ripulita. Fin dai primi giorni dopo l'esplosione, le strade e gli edifici furono lavati con liquidi decontaminanti per evitare la diffusione delle polveri. Interi villaggi furono abbattuti e sepolti. Ai soldati fu dato ordine di sparare a vista a cani e gatti, che con la loro pelliccia avrebbero potuto contaminare i liquidatori, i lavoratori che operavano al recupero della zona del disastro. Si stima che più di 500000 persone, tra militari e civili, lavorarono a Chernobyl per fronteggiare la catastrofe: l'ultima grande battaglia dell'Unione Sovietica.

Per sigillare una volta per tutte il reattore danneggiato fu progettato un enorme sarcofago: una struttura di contenimento di acciaio, piombo e cemento destinata a durare per almeno 30 anni. I lavori di costruzione iniziarono a maggio e proseguirono fino a novembre. I liquidatori coinvolti nella realizzazione della struttura si trovarono a lavorare in condizioni di altissimo rischio, a causa delle radiazioni presenti nel sito. Per ripulire il tetto del reattore numero 3 dai pezzi di grafite scaraventati fuori dall'esplosione, centinaia di essi (i cosiddetti bio-robot), protetti da precarie tute anti-radiazioni, si alternarono in turni di due minuti, armati di badili o addirittura a mani nude: sul tetto il livello di radioattività era talmente elevato che i circuiti elettronici dei robot teleguidati si rompevano.

Il sarcofago fu completato e quando la prima neve dell'inverno si depositò sulla struttura, dando una prova tangibile del raffreddamento del nocciolo, l'incubo sembrò giunto al termine. Sepolta nel sarcofago, definito da Lev Bacharov - uno dei liquidatori che partecipò alla sua realizzazione - il mausoleo dell'industria nucleare, finiva un'epoca. L'incidente di Chernobyl diede una sferzata agli sforzi per il disarmo atomico ed inflisse un duro colpo al nucleare civile. Ma le conseguenze e le responsabilità del disastro subirono una sistematica opera di occultamento e non furono mai chiarite completamente. Il processo per individuare i colpevoli dell'incidente si rivelò una farsa, le pressioni politiche e l'instabilità dovuta al crollo del regime sovietico contribuirono alla mancanza di studi scientifici approfonditi e indipendenti, i rapporti stilati dal Chernobyl Forum, un incontro istituzionale promosso dall'IAEA (International Atomic Energy Agency) per mettere in chiaro gli effetti del disastro sulla salute e sull'ambiente, subirono aperte critiche. Valery Legasov, direttore del Kurchatov Institute, fu uno dei membri chiave della commissione governativa incaricata di investigare le cause della catastrofe e di mitigarne le conseguenze. Nell'agosto del 1986, ad un meeting speciale della IAEA a Vienna, egli presentò un rapporto dettagliato sull'incidente e le sue conseguenze. Il 26 aprile 1988, dopo aver registrato un audiotape in cui spiegava fatti fino a quel momento sconosciuti riguardanti la catastrofe, si impiccò.

Oggi, al centro della Zona di Alienazione, il sarcofago si sta sgretolando, mentre i lavori per la costruzione di una nuova struttura di contenimento, progettata per durare almeno un secolo, procedono a rilento. Sono passati 25 anni, ma migliaia di persone, colpite dalle radiazioni o costrette ad abbandonare le proprie case per sfuggire alla catastrofe, continuano a soffrire. Questa è l'eredità lasciata da Chernobyl alle generazioni a venire: un'eredità che non va dimenticata.

I testimoni
Antochkin, Nikolai: nel 1986 generale dell'Aviazione Militare, oggi presidente degli Eroi di Russia. La sua flotta di elicotteri intervenì ripetutamente sul luogo del disastro.
Bandazhevsky, Youri: scienziato specializzato in anatomia patologica. Ex direttore dell'Istituto Medico di Gomel (Bielorussia). A causa delle sue ricerche sul disastro di Chernobyl fu arrestato nel giugno 2001 e condannato da un tribunale militare a 8 anni di lavori forzati [3]. Amnesty International ne riconobbe lo status di "prigioniero di coscienza". In seguito alla mobilitazione diplomatica di diversi Paesi della CEE, fu rilasciato nell'agosto 2005. Oggi vive e lavora in Ucraina.
Blix, Hans: diplomatico e politico svedese. Direttore Generale dell'IAEA dal 1981 al 1997. L'8 maggio 1986 fu il primo occidentale a volare sopra ai resti del reattore.
Bocharov, Lev: professore di geologia alla Voronezh State University. Contribuì alla realizzazione del sarcofago.
Gorbaciov, Mikhail: segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica dal 1985 al 1991. Premio Nobel per la Pace nel 1990.
Grebenyuk, Vladimir: nel 1986 colonnello della Difesa Civile. Lui ed i suoi uomini furono i primi militari ad intervenire sul luogo del disastro.
Kostin, Igor: reporter dell'agenzia Novosti, unico fotografo al Mondo presente sul luogo del disastro di Chernobyl il 26 aprile 1986.
Nadejina, Natalia: nel 1986 medico all'Ospedale Numero 6 di Mosca, dove furono ricoverati molti dei sopravvissuti affetti da malattia da radiazione. Oggi ricercatrice presso l'Istituto di Biofisica di Mosca e autrice di alcuni articoli relativi agli effetti delle radiazioni sugli esseri umani.
Nesterenko, Vassili: fisico. Ex direttore dell'Istituto di Energia Nucleare all'Accademia Nazionale delle Scienze della Bielorussia. Per le sue ricerche sulle conseguenze del disastro di Chernobyl perse il lavoro e fu minacciato di internamento in un istituto psichiatrico. Fondatore nel 1990 dell'Institute of Radiation Safety "BELRAD". Sfuggì a due tentativi di omicidio e morì nel 2008. 
Tarakanov, Nikolai: nel 1986 comandante delle truppe di terra, a giugno fu incaricato delle operazioni di pulizia per sigillare il reattore numero 4 all'interno del sarcofago.
Yaroshinskaya, Alla: giornalista e attivista anti-nucleare. Eletta nel 1989 deputato del Supremo Soviet dell'URSS, sfruttò la sua posizione per indagare sugli effetti del disastro di Chernobyl. Vincitrice nel 1992 del Right Livelihood Award, autrice di centinaia di articoli e numerosi libri sulla minaccia nucleare.

Note
[1] Secondo i resoconti ufficiali, il magma a contatto con l'acqua avrebbe potuto generare devastanti esplosioni di vapore, capaci di diffondere ulteriormente il materiale radioattivo. Tuttavia l'ipotesi presentata nel documentario è più drammatica e controversa: si parla infatti della possibilità di una catastrofica esplosione termo-nucleare, cento volte più potente di quella di Hiroshima, che avrebbe ricoperto di polveri radioattive l'Europa.
[2] Il numero delle vittime direttamente imputabili al disastro di Chernobyl è da decenni fonte di dibattito. Le statistiche ufficiali sono estremamente caute a riguardo.
[3] L'accusa ufficiale mossa al professor Bandazhevsky, evidentemente infondata, è di aver chiesto denaro per ammettere uno studente all'università. Amnesty International ha dichiarato: "Generalmente si crede che la sua condanna sia in relazione alle ricerche scientifiche sulla catastrofe di Chernobyl e alla sua aperta critica alla risposta ufficiale data alla gente nella regione di Gomel".

Link
-Bandazhevsky, Yuri - Wikipedia (EN)
-Blix, Hans - Wikipedia (EN)
-Chernobyl: Confessions of a Reporter - Amazon.com (EN)
-Chernobyl Disaster - Wikipedia (EN)  
-Chernobyl Forum - Wikipedia (IT)
-Disastro di Chernobyl - Wikipedia (IT)
-Gorbaciov, Mikhail - Wikipedia (IT)
-Institute of Radiation Safety "BELRAD" (EN)
-Kostin, Igor - Wikipedia (EN)
-Legasov, Valery - Wikipedia (EN)
-Liquidatori - Wikipedia (IT)
-Nesterenko, Vassili - Wikipedia (EN)
-Pripyat - Wikipedia (IT)
-PRIX Italia (IT)
-Right Livelihood Award - Wikipedia (IT)
-The Battle of Chernobyl - YouTube (EN)
-Tula City - Russiatrek.org (EN)
-Yaroshinskaya, Alla - The Right Livelihood Award (EN)

lunedì 7 febbraio 2011

Petrolio d'Egitto!

Della rivolta in Egitto i telegiornali stanno parlando in lungo e in largo. Tuttavia ci sarebbero molte cose da dire in proposito. Si potrebbe ad esempio fare qualche considerazione sulla realpolitik, che obbliga i leader di mezzo Mondo (compreso il nostro premier - ma si ricordi che l'Italia è uno dei principali partner commerciali dell'Egitto) a vezzeggiare quello che, se non avesse fatto gli interessi dell'occidente per decenni, verrebbe definito un dittatore e un tiranno. O della censura totale di Internet attuata dal governo del Cairo, soluzione repressiva a cui nessuno era mai giunto prima. Argomenti interessanti, ma di cui non voglio occuparmi oggi. Quello che più mi interessa, alla luce di questa rivolta e delle altre che stanno investendo il Maghreb, è analizzare i motivi della crisi.
Non pretendo di possedere la verità e nemmeno una parte di essa. Dietro agli scontri in Egitto ci sono complesse ragioni socio-economiche e geo-politiche che non sono in grado di analizzare a fondo, ma spiegare la rivolta nel modo semplicistico in cui viene presentata dai media è sbagliato e fuorviante. Le rivoluzioni non si manifestano finché le cose non vanno così male da giustificarle.
La domanda dunque è: perchè le cose in Egitto stavano andando così male?

Date un'occhiata a questo grafico, ottenuto usando l'Energy Export Databrowser e basato sui dati della BP Statistical Review:


La figura è abbastanza chiara, ma ci sprecherò due parole. Ormai da un paio di decenni la produzione petrolifera egiziana è in declino. Al contrario, il consumo di greggio continua a salire. Da paese esportatore di petrolio l'Egitto si sta trasformando in un paese importatore, perdendo un'importante fonte di reddito e di stimolo per l'industria: questo va ad aggravare una situazione finanziaria a dir poco disastrosa.

Stando al CIA World FactBook, le riforme economiche varate dal governo nel periodo 2004-2008 per attrarre investimenti stranieri hanno avuto scarso successo a causa della recessione economica globale. Con un debito pubblico pari all'80,5% del PIL, più del 20% della popolazione sotto la soglia di povertà, un'inflazione galoppante (12,8% nel 2010) e un tasso di disoccupazione pari al 9,7%, la situazione egiziana alla vigilia della crisi era tutt'altro che stabile.

Per calmierare i prezzi dei generi alimentari da decenni il governo egiziano fa ricorso a sussidi.  Nel 1977 l'annuncio di provvedimenti economici che avrebbero portato al rialzo dei prezzi dei generi di prima necessità scatenò una rivolta (la cosiddetta rivolta del pane) in cui persero la vita decine di persone. Il governo dell'epoca fu costretto a tornare sui suoi passi. Ma da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Nel 2008 al grido Aish! Aish! (pane! pane!) milioni di egiziani assaltarono i forni di tutto il paese. Morirono 15 persone e la crisi rientrò, almeno per un po'.

Considerato un tempo il granaio dell'impero romano, l'Egitto è oggi uno dei maggior importatori di grano del Mondo (nel 2010 il ministro dell'agricoltura Amin Abaza ha dichiarato che il paese importa il 40% del cibo e il 60% del grano). Anche la pressione demografica ha continuato a crescere in modo inarrestabile, togliendo tra l'altro terreni prima disponibili per l'agricoltura, già minacciata da un forte stress idrico (l'Egitto è in competizione con Sudan ed Etiopia per lo sfruttamento del bacino del Nilo, una situazione che rende instabile l'intera regione).

Venendo a mancare fonti di reddito importanti come l'esportazione di petrolio (compensate solo in parte negli ultimi anni da un aumento delle esportazioni di gas naturale e da altri proventi come quelli derivanti dal transito delle navi nel canale di Suez, una cui ipotetica chiusura assesterebbe un ulteriore grave colpo all'economia egiziana) e dovendo fra fronte ad un aumento del prezzo del grano (nel 2010 la produzione ha subito una contrazione, in parte dovuta all'ondata di caldo e siccità che ha investito la Russia) mantenere immutata la politica dei sussidi, che è ormai uno dei pilastri dell'economia egiziana, diventa sempre più difficile ed insostenibile.

Aggiungiamo un sistema corrotto, autoritario e oppressivo, un gap tra ricchi e poveri sempre più ampio e un benessere che non si vede se non sulla carta e negli alberghi a 5 stelle in riva al Nilo (nel 2010 il PIL egiziano è cresciuto del 5,3%, uno dei tassi più alti della regione, ma insufficiente per compensare la crescita demografica) ed ecco spiegate le ragioni della crisi! L'Egitto è una nazione allo sfascio.

Purtroppo, ed è qui che voglio andare a parare, la situazione egiziana è tutt'altro che isolata.

La produzione di petrolio ha già raggiunto il picco in diverse nazioni e, a livello globale, sta stagnando dal 2005. Nonostante le previsioni ottimistiche (o miopi) di chi sostiene che, grazie a tecnologie all'avanguardia, sarà possibile proseguire l'estrazione di greggio a prezzi economicamente vantaggiosi fino alla fine del secolo, ritengo più probabile che l'aumento della domanda di petrolio e altri combustibili fossili, soprattutto a causa dell'ingresso nel mercato di economie emergenti e avide di risorse, sarà impossibile da soddisfare in seguito all'esaurimento delle riserve primarie e più facilmente accessibili. Lo scatenarsi di conflitti in aree come l'Afghanistan e l'Iraq è, a mio parere, sintomo di una corsa ad accaparrarsi le risorse strategiche finché è possibile.

Un aumento della domanda e un ristagno (o una diminuzione) della produzione hanno come conseguenza un aumento dei prezzi. Non solo del petrolio, com'è logico aspettarsi, ma anche del cibo.

Guardate questo grafico, che mette a confronto il FAO Food Price Index con l'indice Brent del petrolio:


Notate qualche somiglianza? Vorrei ricordarvi che il petrolio è usato direttamente nella produzione agricola (i trattori vanno a gasolio) e indirettamente nell'immagazzinamento e nel trasporto. Da cui la forte somiglianza tra i due grafici.

Se a questo sommiamo l'aumento demografico, la diffusione dello stile di vita occidentale con il conseguente maggiore consumo di carne (per la cui produzione sono necessarie notevoli quantità di grano ed acqua) e uno scellerato uso delle risorse agricole per la produzione di biocarburanti otteniamo una domanda di grano ed altre risorse alimentari primarie in continua crescita.

D'altra parte non è previsto per i prossimi anni un aumento decisivo della produzione agricola paragonabile a quello avviato dalla Rivoluzione Verde negli anni '70, motivo per cui i prezzi dei generi alimentari sono destinati a salire sempre più.

Questo aumento dei prezzi, unito ad una diminuzione dei redditi e del potere d'acquisto a causa della recessione economica, è insostenibile per una larga parte della popolazione mondiale, che vive sotto la soglia di povertà. La crisi colpisce per prime le economie più deboli e le nazioni socialmente arretrate, ma anche le classi disagiate delle nazioni più ricche. Per di più l'inflazione innesca un meccanismo di feedback che alimenta la crisi economica. Dovendo impegnare più risorse finanziarie nell'acquisto di generi di prima necessità, le classi più deboli rinunciano all'acquisto di beni secondari. Vi è così una contrazione dei consumi, che in un sistema economico che basa il benessere sul PIL è un autentico disastro.
Temo che le rivolte del pane diverranno una norma negli anni a venire.

In un Mondo strettamente interconnesso come quello in cui viviamo, che continua a basare il proprio funzionamento sull'uso di combustibili fossili, in cui i concorrenti ad accaparrarsi le risorse diventano sempre più numerosi ed agguerriti ed in cui la cultura economica dominante basa le proprie decisioni su previsioni a breve termine il futuro si prospetta grigio.
Il Rapporto sui limiti dello sviluppo commissionato al MIT dal Club di Roma e pubblicato nel 1972 fu deriso e gli scienziati che ammonirono i decisori politici sui rischi derivanti dalla crescita illimitata fecero la fine di Cassandra. Forse qualcuno avrebbe dovuto dar loro ascolto. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.

giovedì 27 gennaio 2011

Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya

La mattina del 6 agosto 1945, il bombardiere B-29 Enola Gay si alzò in volo dalla base di Tinian Island, nell'arcipelago delle Marianne, con a bordo una bomba all'uranio dal peso di quattro tonnellate.
Alle 8.15 la bomba, conosciuta con il nome in codice Little Boy, fu sganciata in corrispondenza del centro della città di Hiroshima.
Dopo 57 secondi di caduta, all'altezza predeterminata di 600 metri, i dispositivi interni alla bomba innescarono con una piccola detonazione una massa super-critica di uranio di 64 kg. Di quei 64 kg, solo 0,7 kg furono sottoposti a fissione e di quella massa solo 600 milligrammi furono convertiti in energia.
La potenza distruttiva dell'ordigno bruciò qualsiasi cosa nel raggio di chilometri, l'onda d'urto rase al suolo gli edifici e radiazioni mortali colpirono tutti gli esseri viventi che si trovavano nei pressi dell'ipocentro. Si pensa che 70000 persone morirono sul colpo e altrettante nei giorni, nelle settimane e nei mesi seguenti, a causa delle ferite subite o delle radiazioni.

Al momento dell'esplosione, Michihiko Hachiya, direttore dell'Ospedale delle Comunicazioni di Hiroshima, si trovava nella sua casa, distante circa un chilometro e mezzo dall'ipocentro. Sopravvissuto al pikadon per miracolo, nudo e ferito, il dottor Hachiya si trascinò, insieme alla moglie, fino all'ospedale, dove rimase, prima come paziente e poi come medico, per diverse settimane. Diario di Hiroshima, pubblicato nel 1955, raccoglie lo straordinario racconto di questa esperienza e rappresenta una testimonianza unica di uno dei più terribili eventi della storia dell'umanità. La narrazione comprende il periodo che va dal 6 agosto al 30 settembre 1945.
 
"All'improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti particolari: rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si illuminò di una luce vivida, e io mi chiesi se fosse prodotta da una vampa di magnesio, o non piuttosto dalle scintille di un tram di passaggio.
Le ombre del giardino sparirono. La scena, che un istante prima mi era apparsa così luminosa e gaia di sole, si oscurò, gli oggetti si fecero indistinti. Fra i nembi di polvere riuscivo a stento a distinguere una colonna di legno che era servita di sostegno a un angolo della casa. Ora la colonna era contorta e il tetto pareva in procinto di rovinare."

Scritto con una prosa lucida e precisa, il diario offre uno sguardo, giorno dopo giorno, sul panorama di morte e desolazione in cui si sono ritrovati la città e i suoi abitanti durante e dopo lo scoppio della bomba. La mentalità scientifica del dottore traspare nella descrizione dei feriti, degli ustionati, degli uomini e delle donne investiti dall'esplosione o colpiti dalle radiazioni, senza omettere alcun particolare, nemmeno i più macabri.
E così ci appaiono davanti agli occhi uomini dal volto liquefatto, nudi, con la pelle che si stacca dai muscoli, che vagano ciechi per le strade della città ridotta in macerie, soffocata dagli incendi e avvolta in una notte prematura.
O i pazienti dell'ospedale, scampati all'esplosione, ma non all'effetto letale delle radiazioni: agonizzanti in un letto, soffocati dalle emorragie, con la pelle piagata e i capelli che cadono, mentre i medici assistono impotenti.
O le ombre di chi, dalla bomba, è stato ridotto in cenere. 

Oltre al contenuto puramente descrittivo, il diario offre anche un aspetto umano molto importante, costituito dalle riflessioni, dai sentimenti e dalle annotazioni personali del dottor Hachiya. E così, attraverso le sue parole, osserviamo il destino di un popolo sconfitto, umiliato e costretto alla resa. Scopriamo la bassezza di taluni uomini ed il coraggio e l'onore di altri, che anche nei momenti più bui si elevano come un faro, animati dai più puri sentimenti. In particolare le pagine dedicate da sensei Hachiya all'Imperatore sono molto toccanti: una fede irremovibile, così come viene descritta nel racconto del salvataggio del ritratto imperiale, appare a tratti incomprensibile a noi occidentali. Colpisce anche il grande rispetto mostrato per il nemico, soprattutto dopo un evento tragico come il bombardamento. 

In definitiva Diario di Hiroshima è una lettura che atterrisce, commuove e fa riflettere. Sicuramente è uno dei libri migliori che io mi sia trovato tra le mani negli ultimi anni. Consiglio a tutti di leggerlo: il 6 agosto 1945 è una data che non va dimenticata, affinché certi orrori non debbano mai ripetersi.


Link: 

sabato 15 gennaio 2011

Facebook e lo spirito del web

Uno dei principi fondamentali del web è la sua universalità: la possibilità per chiunque di condividere con chiunque altro un'informazione o una risorsa , ovunque essa si trovi, rendendo in tal modo il web uno spazio d'informazione universale e interconnesso.
Questo principio, dato per scontato nelle nazioni democratiche, è tuttavia minacciato dalla nascita e dalla crescita, all'interno della rete, di entità monolitiche come Facebook e altri social network, che, non rispettando lo spirito di apertura e condivisione, impediscono, di fatto, la libera diffusione delle informazioni.

Vediamo come ciò può accadere.

All'interno del web, l'URI rappresenta la chiave per l'universalità.

Uno Uniform Resource Identifier è una stringa che identifica univocamente una risorsa generica che può essere un indirizzo web, un documento, un'immagine, un file, un servizio, un indirizzo di posta elettronica, ecc. (da Wikipedia)

Utilizzando URI basati su un protocollo proprietario, Facebook permette di visualizzare e condividere informazioni e risorse solo all'interno del proprio sito: diventa in tal modo impossibile condividere i dati con chi sta fuori.
Facebook assomiglia in effetti a un buco nero: raccoglie e immagazzina i dati all'interno dei propri database e li riutilizza per fornire servizi a valore aggiunto, ma solo a chi fa parte della community. Le pagine sono nel web, ma i dati no.

Questo trend, che caratterizza Facebook ed altri siti e servizi meno famosi, è una grave minaccia per il futuro della rete, che rischia di frammentarsi in entità più piccole ed isolate le une dalle altre.
Con i suoi 500 milioni di utenti, Facebook è una piattaforma di successo, ha enormi potenzialità, è comodo e facile da usare, ma si basa su un concetto di condivisione sbagliato.
La scelta di cosa condividere e con chi dipende dai singoli utenti, a cui va anche la responsabilità di non imprigionare informazioni di valore universale in gruppi isolati, ma il sistema non deve imporre alcun limite a questa libertà di scelta. Quando ciò accade il sistema va cambiato.

Questa ed altre minacce, che violano i principi di libertà, uguaglianza e neutralità che caratterizzano la rete fin dalla sua nascita, sono state evidenziate da Tim Berners-Lee, uno dei padri fondatori del web, in un suo articolo apparso su Scientific American alla fine dello scorso anno.
L'articolo (che apparirà anche sul numero 510 de Le Scienze, in edicola a partire dal mese di febbraio 2011) merita una lettura approfondita per capire che certi principi, che magari diamo per scontati, in realtà vanno difesi ad ogni costo. La rete è, e deve restare, il più grande patrimonio di democrazia e libera conoscenza dell'umanità.

A me l'articolo ha aperto gli occhi e mi sono accorto di come certe questioni importanti siano ampiamente sottovalutate. Nel mio piccolo ho deciso di cambiare il modo di condividere le informazioni. Come molti altri sono rimasto ammaliato da Facebook, di cui sono un assiduo utilizzatore da quasi tre anni, ma d'ora in avanti eviterò di usarlo per condividere qualsiasi risorsa che non riguardi la sfera privata, riservando il suo utilizzo esclusivamente allo sharing di informazioni personali con i miei amici (di come Facebook trasformi i rapporti interpersonali scriverò in un altro post).
Questo è, tra l'altro, uno dei motivi per cui ho deciso di rispolverare il blog.


Link:
-Long Live the Web: A Call for Continued Open Standars and Neutrality, Tim Berners-Lee, Scientific American Magazine, dicembre 2010
-URI, Wikipedia
-Tim Berners-Lee, Wikipedia

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